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  • Immagine del redattoreAldostefano Marino

La doppia vita di Rimbaud, Edmund White

Aggiornamento: 22 dic 2021

Il più maledetto di tutti i poeti maledetti, il più trasgressivo, il poeta dalle suole di vento, il prodigio Arthur Rimbaud. Rimbaud: lui, e perfino l’altro di cui sempre è andato in cerca, sono i protagonisti assoluti della Doppia vita di Rimbaud (White E., minimum fax 2019).


Tra le numerose biografie che hanno cercato di riportare in vita il poeta veggente, La doppia vita di Rimbaud è per me il testo più completo. Un volume brevissimo ma che raccoglie agilmente tutte le informazioni (possedute, e persino quelle che nel tempo sono state inventate!) della vita del poeta più tormentato dell’Ottocento francese.


White, critico letterario statunitense, membro dell’American Academy of Arts and Letters, ha fatto della tematica omosessuale il filo portante dei suoi studi e dei suoi libri. Assieme alla storia di Rimbaud, del medesimo autore celebri sono le biografia di Proust e di Jean Genet.

E per quanto riguarda La doppia vita di Rimbaud, scritta come se fosse un romanzo, l’intuito l’ha portato a individuare dietro quell’eccessivo enfant prodige il protagonista perfetto di un libro che è realtà.


Ma procediamo dall’inizio. Arthur Rimbaud nacque il 20 ottobre 1854 a Charleville, nelle Ardenne francesi.


Charleville – situata non troppo lontano dal confine belga – deve la sua notorietà all’omonima battaglia consumata durante la Seconda guerra mondiale. Una cittadina rurale, «con gli edifici pubblici del Seicento raccolti intorno a una piazza ducale lastricata», quella stessa piazza su cui dopo la scomparsa di Rimbaud, il suo busto sarà commemorato e adorato anche da quegli abitanti che prima gettarono ombre e discredito sulla sua figura.

Figlio di Vitalie Cuif, Madame Rimbaud da sempre è narrata come una donna chiusa e piuttosto insensibile; soprattutto, dominata da una devozione sacrilega verso il cattolicesimo e i precetti della fede.


Suo padre, Frédéric, un capitano dell’esercito e figlio di un sarto, non trascorse molto tempo vicino alla famiglia. Per tutta la vita egli non fece altro che sfruttare il patrimonio della moglie, nonostante i primi anni della loro unione siano segnati dai suoi continui e felici ritorni; ognuno dei quali si concludeva con l’arrivo di un figlio.

In quella abitazione posta proprio sopra la libreria di Prosper Letellier, il primo ad arrivare fu Frédéric. Dopo di lui arrivò Arthur, poi sua sorella, Vitalie – come sua madre. Ma la prima Vitalie non visse oltre un mese, e solo un anno dopo nacque un’altra neonata a lei omonima, alla quale seguì l’ultima dei figli: Isabelle.


È il 1860, quando Rimbaud ha soli sei anni e suo padre parte per la Crimea per non fare più ritorno.

Ma per Vitalie Cuif, assunte presto le sembianze e il nome di vedova, la partenza del capitano non è la fine del mondo. La vedova Rimbaud è una rigida conservatrice; ammiratrice del lavoro assiduo, mal sopportava che il marito si perdesse in frivolezze di poco conto. Tra le quali frivole occupazioni, la più detestata era quella presunzione di scrivere poesie, libri che non vennero mai pubblicati.


Tra il cattolicesimo della madre e le letture da lei pilotate, Rimbaud si avvicina allo studio della Bibbia, ma per il solo amore che egli già provava per gli uomini – più che per interesse e altrettanta devozione. Se anche da lui, la mancanza del padre non venne mai effettivamente esplicitata, quel suo disappunto lo si ritroverà nella prima composizione di Rimbaud. Niente meno che una poesia che raccontava di bambini abbandonati dai genitori, intitolata Le strenne degli orfani (1870).


Il suo percorso scolastico non potrebbe dirsi più eccellente di così; i voti sono altissimi, e all’ultimo anno delle scuole medie, Rimbaud può annoverare già numerosi premi che gli son stati attribuiti. Il premio in storia e geografia, quello in composizione latina, in greco, e via dicendo.

Di quella vita normale, in un paesino qualsiasi della Francia, Rimbaud raccontò nelle sue poesie. Anti-borghese fin da quei giovani anni, Arthur si ispirava ai grandi personaggi della storia. A differenza del fratello maggiore Frédéric, Arthur è il primo della classe; rimane tale anche quando Vitalie si impunta di trasferire entrambi i ragazzi in un liceo privato del paese. Lì può diventare il pupillo del preside a cui sarà concesso di leggere qualsiasi cosa egli desideri.


Fondamentale per l’avvio all’amore per la letteratura del giovanissimo poeta fu la figura di George Izambard.


Docente di retorica nell’istituto, George Izambard fece da subito impensierire il corpo dei docenti per le sue critiche rivolte ai «polverosi versi» di Verlaine. Nella sua infanzia, Izambard era stato un bambino solitario, cresciuto da tre zie zitelle; diffidava dal giovanissimo Rimbaud per la fama accresciuta che girava attorno ai suoi premi e riconoscimenti. Tuttavia, ne divenne il maestro privato e grazie a lui, Rimbaud conobbe Rousseau, Rabelais e il «poeta-ladro-vagabondo» Francois Villon. Quei libri che Izambard consigliava a Rimbaud, però, insospettivano la vedova Rimbaud – tanto che, proprio a lui, dopo la morte di Arthur, saranno rivolte le accuse di averlo trascinato nel vizio e nell’eccesso.


Grazie a Izambard, Arthur Rimbaud venne introdotto ai circoli bohémien del luogo; incontrò alcuni tra i bibliofili più in vista di allora; e in quel mondo di artisti, finalmente, il poetuncolo riuscì a sentirsi a casa.

Un altro personaggio chiave per la formazione di Rimbaud, che gli sarà fedele per tutta la vita e ne diverrà persino il biografo più accreditato fu di certo Ernest Delahaye, futuro esponente della Parigi letteraria. In quel momento, Arthur è come se abbandonasse la sua unicità per sdoppiarsi:

C’era il Rimbaud di scuola, distante e reticente, che sembrava ancora subire l’autorità del pugno di ferro; e poi, l’esatto opposto, c’era il Rimbaud delle nostre discussioni, che dava libero sfogo alla sua vera identità, con una specie di esuberanza intellettuale. […] In seguito Rimbaud stesso comprese il proprio sdoppiamento quando mi scrisse: «Io è un altro». Izambard George, dalla Doppia vita di Rimbaud, Minimum fax 2009.

È sempre grazie a Izambard che Rimbaud comincia a scrivere quasi una poesia al giorno. Si fa crescere i capelli, e lui stesso cominciò a indossare i panni del poeta a cui avrebbe voluto assomigliare: un poeta visionario, che da quel momento ha il compito di far esperienza totale della realtà, per poterne poi afferrare il senso e narrarla ai suoi lettori.


È il 1870 quando Rimbaud, con alcuni franchi ricavati dalla vendita dei suoi libri, partì per la sua prima fuga di casa.


Completamente da solo e senza soldi, Rimbaud però venne arrestato a Mazas. Accusato di vagabondaggio, all’esule poeta vennero tagliati i capelli, e i suoi vestiti bruciati. Ancora fu Izambard a fornirgli la via di fuga: grazie a lui, infatti, recatosi alla prigione di Parigi, Rimbaud scontò il prezzo dovuto alle autorità per farlo liberare.

Il giovane fuggitivo a quel punto, sotto sollecitazione del professore scrisse a sua madre per tranquillizzarla e infine venne sistemato a casa delle tre sorelle Gindre a Douai, in cui Izambard trascorse l’infanzia. Viziato e vezzeggiato da tutte e tre le signore, Rimbaud potè leggere una enorme quantità di libri e saggi su vari temi.

Durante quel viaggio Rimbaud scrisse alcune delle sue poesie più celebri, che sorprendentemente decantavano l’eterosessualità dell’amore. Tuttavia, la sessualità di Rimbaud non è mai data una volta per tutte: infatti, «sia prima che dopo la passione violenta e distruttiva che avrebbe provato per Verlaine, il suo interesse fu rivolto principalmente alle donne».


Alla fine di quel 1870, Rimbaud dà realmente vita al suo doppio e inizia una vita dedita al vagabondaggio.


Se in quelle camminate e nelle peregrinazioni instancabili Rimbaud trovasse la pace, oppure andasse in cerca di avventure, questo non è dato saperlo a nessuno. Ciò che è certo è che Rimbaud fosse un grande amante dell’arte del cammino, e che più volte compì delle lunghissime traversate a piedi per spostarsi da un paese all’altro senza dover pagare il biglietto.

Nel frattempo, la vedova Rimbaud era ormai esasperata da quell’animo ribelle; lo supplicava di far rientro a casa. E quella volta, probabilmente Rimbaud accettò di tornare conscio del fatto che non avrebbe saputo starci a lungo. Infatti, un solo anno dopo, con i soldi ricavati dalla vendita di un orologio, Rimbaud si apprestò a compiere la sua seconda fuga, e partì per la città di Parigi.


Ma ritornato per l’ennesima volta a Charleville, la madre lo pose davanti a un ultimatum: o Rimbaud avrebbe ripreso gli studi, oppure si sarebbe dovuto trovare un lavoro. Insofferente alla sola menzione di quella pratica, Rimbaud si lasciò sedurre dalla Comune di Parigi, instaurata proprio a quel tempo. È la Comune, a suo pensare, l’unica cosa in grado di salvare la società. La libertà, la condivisione, gli eccessi sono i valori più apprezzati da Arthur.

Il poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato regolamento di tutti i sensi. […] Ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale fra tutti diviene il grande inferno, il grande criminale, il grande maledetto – e il Sapiente supremo! – Perché egli giunge all’ignoto! Rimbaud, Opere in versi e in prosa, Garzanti, Milano 1989, trad. Dario Bellezza

Sono i versi contenuti nella Lettera del veggente a rompere in modo netto i rapporti con la poesia del passato.


Solo attraverso i suoi poteri visionari – sollecitati dall’uso di droghe, alcool e l’adempimento a una vita sregolata, il crimine, la malattia e così via – il poeta può ergersi «Sapiente supremo» della poesia.

Ma al rientro dalla Comune di Parigi, tornato a Charleville Rimbaud dà vita a quel suo lato snob e «nullafacente». Cominciò a imbrattare i muri della città con parolacce e scritte oscene; ovunque andasse discettava di letteratura e di politica, sempre con toni accesi e mai pacati; fumava la pipa e non faceva altro che scrivere le sue poesie. A Charleville inoltre, trattava male i suoi concittadini, li disprezza per la strada, eccetto uno: Charles Bretagne. All’indirizzo di questo omosessuale maturo, Rimbaud si fece inoltrare la corrispondenza; ma soprattutto è grazie a Bretagne, che Arthur entrò in contatto con l’uomo che gli avrebbe stravolto la vita: Paul Verlaine.

Rimbaud, scrittagli una lettera traboccante di amore e ammirazione, venne invitato dal poeta a soggiornare presso il suo domicilio, in cui viveva con la moglie, Mathilde Mauté e i di lei genitori. La risposta di Verlaine è univoca: «Vieni, cara e grande anima, ti chiamiamo, ti aspettiamo».


Come Rimbaud, anche Verlaine aveva un padre militare – ma infermo. Un uomo che per tutta la vita non aveva fatto altro che dedicarsi all’ozio.


Madame Verlaine, invece, era una donna molto morbosa: aveva partorito due figli nati morti, e ne aveva per molto tempo conservato i feti dentro due bottiglioni trasparenti pieni d’alcool. Sarà proprio Verlaine, durante una lite incorsa con la donna, a spaccare i due contenitori per il solo gusto di vendicarsi.

Anche l’infanzia di Verlaine fu abbastanza complicata. Dopo il liceo si iscrisse a giurisprudenza ma frequentò l’università per poco tempo, perché la maggior parte voleva spenderlo leggendo poesie e ubriacandosi di assenzio. Bevanda dai poteri allucinogeni, l’Assenzio è tutt’oggi illegale in diversi paesi del mondo.


Paul era un tipo pieno di dubbi, esitava continuamente e mai sapeva che posizione prendere: fu per questo, forse, che si accompagnò a una moglie di cui non era veramente innamorato – e di cui ben poco gli importava. Passava dall’esaltazione alla depressione, era omosessuale ma odiava profondamente quel «vizio» di cui avrebbe voluto liberarsi una volta per tutte. Almeno finché nel suo cammino non incappò nella figura di quel giovanissimo tentatore malvagio, il piccolo Verlaine – di cui si sarebbe per sempre innamorato, ma di un amore possessivo, morboso e malato.


Fu proprio a causa del suo spropositato amore per l’alcol che i famigliari di Verlaine lo spinsero a interessarsi alla donna che avrebbe sposato, che avrebbe potuto garantirgli un futuro decoroso e dignitoso. Così, nell’autunno del 1869, Paul Verlaine incontrò la sedicenne Mathilde Mauté.


Presto, però, anche Mathilde sarebbe giunta ad accorgersi della follia del proprio consorte.


Con il passare del tempo Verlaine ritornò ai vecchi costumi: riprese a bere sempre di più, tornava a casa a orari sempre più improbabili, e nessuno riuscì a convincere Mathilde del fatto che sarebbe stata mandata in rovina da lui.

Trasferitosi insieme a Montmartre nell’appartamento dei suoi genitori, anche i suoceri di Verlaine rimasero impietriti davanti ai modi indisciplinati del poeta. Irrequieto, spesso volgare e mai incline alla tranquillità e alla noia – a differenza del padre.


Fu in quel mondo borghese che Arthur Rimbaud capitò pronto a spargere zizzania e tempesta. Portò con sé i duecento versi che sarebbero diventati Il battello ebbro, versi influenzati di Baudelaire, contenti parole coniate da Rimbaud medesimo. In quei versi si spegneva un po’ quell’arroganza giovanile; «quella goliardia adolescenziale ha lasciato il posto alla descrizione di un viaggio che è al tempo stesso era una odissea e una saga familiare».

Insieme a quei versi pregni di dolore e significato, Rimbaud non portava con sé nemmeno una valigia; solo un cambio di vestiti cuciti da sua madre con stoffa economica. Nessuno andò a prenderlo alla Gare du Nord, e da solo fu Rimbaud a raggiungere la casa dei Mauté dove avvenne il primo incontro con l’uomo che gli sarebbe diventato amante.


Ma subito divenne un ospite indemoniato e ingestibile: prendeva il sole nudo davanti alla loro casa, e raccontava fieramente di aver i capelli ricolmi di pidocchi – minacciando i passanti di farglieli saltare addosso. Ma quell’aspetto, quella stravaganza, quegli occhi azzurrissimi e quel visetto più immaturo di quanto realmente fosse, fecero breccia nel cuore del primo tra i poeti maledetti: Paul Verlaine.

Verlaine rimase stregato da lui, lo presentò agli intellettuali francesi, immediatamente lo fece fotografare da Etienne Carjat, uno dei pittori più importanti del tempo – davanti a cui sfilavano i pensatori più in vista di allora affinché il loro successo fosse decretato e immortalato dalle sue opere pittoriche.


Tuttavia, Rimbaud era antipatico ai più. Il suo aspetto giovanile, il suo essere sempre provocatorio, sboccato, senza freni, indispettì tutti – e l’unico che continuò a difenderlo fu il suo amante, Verlaine.


In quei quattordici mesi di matrimonio Verlaine non aveva più scritto poesie, ed era riuscito in qualche modo a tenersi lontano dall’alcool, sì; ma l’arrivo di Rimbaud rimise in discussione qualsiasi cosa, e risvegliò nel maturo poeta una giovinezza e una sregolatezza mai conosciute. Rimbaud «lo spingeva a vivere da selvaggio e a ubriacarsi tutto il giorno – e a scrivere come il vergente che era destinato a diventare».


Nel 1872, dopo una lite furiosa avvenuta tra Mathilde e Verlaine, Monsieur Mauté fece esaminare da un dottore i lividi di Mathilde e ne fece firmare un documento che attestasse le violenze subite. La coppia venne così divisa, e questo, portò Verlaine a ritornare sui propri passi – non essendo in grado di abbandonare per sempre il tetto confortante della moglie.


Pregò la moglie di perdonarlo, cercò di convincerla a non separarsi da lui, ma ciò avrebbe significato perdere definitivamente i rapporti con Rimbaud. Alla fine, però, Verlaine raggiunse la moglie con l’inganno; la convinse a tornare con loro figlio a Parigi e il poeta si mise persino a cercare lavoro.

Ma mentre quella vita strana procedeva, i contatti tra i due amanti omosessuali continuavano, prima nascosti agli occhi di tutti, ma poi sempre più evidenti e meno taciuti. Il 7 luglio di quello stesso 1872, Verlaine uscì da casa per comprare delle medicine per la nevralgia della moglie, ma da quelle commissioni non rincasò più, perché fuori incontrò Rimbaud che lo convinse a partire con lui per il Belgio.


Non vi racconterò altro di questa assurda e stramba relazione, alimentata di partenze e ritorni continui. L’amore ossessionato di due poeti troppo presi da se stessi per aprirsi all’altro.

Sperando che quanto narrato fin qui vi conduca alla scoperta di Rimbaud, vi basti invece sapere l’epilogo: a Londra, durante un lungo soggiorno nel 1873, Verlaine sparò due colpi di pistola in presenza della madre e del giovane amante. Uno dei due colpi finì sul pavimento; l’altro, invece, ferì il polso dell’allora diciannovenne Rimbaud, supplicato di non abbandonarlo e all’apice della disperazione.


Per questo motivo, Verlaine sarà incarcerato per poco meno di due anni: l’accusa non avrà assolutamente cura di ricercare un poco di quell’amore nelle lettere e negli scambi avvenuti tra i due, ma farà presto a sentenziare il verdetto. La sua detenzione non sarà affatto dura, ed egli potrà dedicarsi interamente nelle poesie dedicate al suo passato amore, come Romanze senza parole.


Nel frattempo, invece, Rimbaud, raggiunto il piccolo paese di Roche, dedica anima e corpo alla scrittura dei suoi ultimi versi; dopo di quelli non scriverà più niente e abbandonerà la poesia (sempre offendendola e vomitandola). Forse la sua ispirazione si è esaurita, forse ancora, nell’onestà Rimbaud riconosce di non essere più ispirato dall’arte.

Da lì a poco Rimbaud lascerà definitivamente la Francia, senza più farvi ritorno se non per periodi brevissimi.


Scomparso alla giovanissima età di 37 anni, la seconda vita di Rimbaud è quella più misteriosa.

C’è chi lo ritrae come uno schiavista in Africa; chi gli attribuisce il mestiere di trafficante d’armi; chi ancora lo inquadra dedito al mercato nero e all’uso della cattiveria più smisurata. C’è anche chi attribuisce a lui quella firma RIMBAUD incisa sul basamento di un tempio a Luxor; in ogni racconto, però c’è una certezza: Rimbaud ha abbandonato la poesia. E non solo l’ha abbandonata, adesso la disprezza, la sbeffeggia e non fa menzione a nessuno del poeta che è stato. Ma d’altro canto, nemmeno lui sa che la sua fama sta crescendo vertiginosamente in Francia. Tutti i francesi lo stanno riscoprendo, lo amano, adorano il suo eccesso, lo cercano e qualcuno prova anche a scrivergli. Ma Rimbaud non ha più alcun interesse nella fama; chissà se continua a pensare a Verlaine, il cui ultimo incontro risale al tempo successivo il carcere di lui.


Ammalatosi viene sostenuto dalla sorella Isabelle, l’unica che gli starà vicino nei suoi ultimi anni di vita. E chissà anche in questo caso, se ella, così distante da lui, non gli si sia avvicinata in previsione della considerazione che stava acquisendo. Di certo resta il fatto che Isabelle si sposerà con uno dei più attenti studiosi del fratello, e che sarà proprio lei a inventare e cancellare alcune delle storie sulla vita di Arthur Rimbaud.


Tuttavia, nessuno può negare che Rimbaud, il più eclettico di tutti i poeti, il più vero, il più onesto; l’inventore della poesia in prosa, continui a dirci qualcosa tutt’oggi e che le sue poesie siano diventate canti perfetti – ora disperati, ora d’amore – celebrati dal mondo intero.

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