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Immagine del redattoreAldostefano Marino

Non leggete i libri, fateveli raccontare

Il Nostro Giovane Lettore vuole solamente arrivare, non rassegnandosi a trascorrere i suoi anni dietro a uno sportello d'ufficio. Ha scelto una carriera estremamente imprecisa, e ha fatto bene. Ora deve seguire i nostri consigli, e il successo è garantito. Bianciardi L., Non leggete i libri, fateveli raccontare, Neri Pozza, Milano 2022 (p. 29)

Pubblicato in occasione del centenario dalla nascita di Luciano Bianciardi, Non leggete i libri, fateveli raccontare si presenta come un agile manualetto pensato per il giovane studente che, una volta abbandonati gli studi superiori, si trovi nella posizione e nell'intenzione di abbracciare la cosiddetta carriera intellettuale.


Ma attenzione: non un giovane qualunque, un giovane di poco talento, che magari sia nato in una famiglia che gli ha pagato gli studi, mai eccellenti, mai motore dei suoi interessi. Perché certe volte, meno cultura si ha, più si è abili a ostentarne, e che cosa si trova di meglio alla base del lavoro intellettuale e culturale se non appunto l'ostentazione?



La prima volta che queste pagine hanno visto la luce era all'incirca il 1966, in sei puntate, sul settimanale di attualità fondato da Enrico Mattei, l'ABC.


Luciano Bianciardi ha lasciato Grosseto nel 1954, è stato assunto da Giangiacomo Feltrinelli per dargli una mano nella nascente casa editrice, diamante della nuova sinistra non ortodossa. Ma questa realtà fa presto a diventare scomoda all'anarchico e ironico Bianciardi: l'intellettuale non apprezza gli orari prestabiliti e la vita d'ufficio; detesta lo stipendio in quanto rappresenta un passo verso il proprio riconoscimento di piccolo-borghese, all'interno di un Paese, l'Italia, che gli sta sempre più stretto e gli piace sempre meno.


Disprezza il consumismo, intravedendovi la causa del conformismo e della solitudine dell'uomo moderno, intrappolato in supermercati sempre più affollati e grattacieli di volta in volta più alti – dove potersi sentire forti guardando il mondo ai propri piedi nella sua integrità, ma consegnandosi alla società come inetti, spettatori di un mondo che per aver successo ha bisogno di restare così com'è: un enorme e macchinoso bluff.


Non a caso, una dote caldeggiata di cui l'intellettuale giovane non può fare a meno, è saper essere falso, pronto a sorridere al suo neopadrone, ma mai disposto a piegarsi sotto le sue volontà. E Bianciardi, che nella sua breve vita è stato prima di tutto un onesto mal tollerato, intuisce di non poter essere quella persona fin da quando abbandona la moglie e i figli a Grosseto per raggiungere Milano. Disposto a tutto pur di essere coerente a sé stesso, alle idee che lo renderanno una personalità di spicco (ma anche invisa!) nell'Italia culturale del Novecento.


Abbandonato dopo la famiglia anche l'editore Feltrinelli che aveva riposto in lui grandi speranze, Bianciardi diventa traduttore a cottimo.


Con l'aiuto della nuova compagnia Maria Jatosti, Bianciardi arriva a tradurre in soli diciotto anni più di centoventi libri, battendoli a macchina la notte in una camera ammobiliata nel quartiere Brera. La linea da seguire, il pensiero a cui tener fede è il progresso: dai Tropici irriverenti di Henry Miller a Jack Kerouac e John Steinbeck. Bianciardi appoggia la rivoluzione dei costumi, la libertà dei corpi di Miller. Si batte per il divorzio: il suo credo è il mito dell'uguaglianza degli esseri umani, ma in fin dei conti sa che appunto non è altro che un mito, e allora occorre saper fingere di essere intellettuali – suggerisce nelle ironiche disposizioni fornite all'intellettuale che fa gavetta –, dar parvenza di credere realmente nel potere della cultura, guadagnarsi il proprio stipendio e tornarsene a casa senza sensi di colpa.


Bianciardi rifugge dalle amicizie di convenienza, dai Premi letterari corrotti, rifiuta persino un incarico per il Corriere della Sera, direttamente offerto da Indro Montanelli. Ma nell'impegno che mette per essere fedele a sé stesso, la delusione è grande per essere capitato non nella Milano sfavillante, traiettoria di successi e ambizioni, ma in una città che vive per i soldi «che ti corrono dietro e poi ti scappano davanti». Una Milano frenetica, fatta di accordi, dove la vita diviene lavoro e non si vive che per questo.


La rabbia e la delusione di Bianciardi si traducono allora nella Vita agra, romanzo in prima persona pubblicato nel 1962, scritta in «lingua dotta popolare e carognona».


La vita agra viene subito recensito con grande entusiasmo proprio da Montanelli sul Corriere della Sera. Le previsioni sono disattese perché Bianciardi per primo non si sarebbe mai aspettato il successo che avrà l'opera, tanto che l'aggettivo agro fa in fretta a diventar di moda. Anche perché non pari successo godettero i due romanzi precedenti, Il lavoro colturale e L'Integrazione (1960).


Grande anticipatore di lotte ancora nemmeno immaginate, comico sofisticato e intellettuale irriverente, quando la rivoluzione inizia davvero, Bianciardi si tira indietro. Non è più tempo di Milano, la sua salute è peggiorata, la solitudine diventa un peso, esilia a Rapallo, ma poi ritorna a Milano.

Il mondo sta cambiando e lui non se ne accorge più. Scrive di Risorgimento e dell'esilio di Garibaldi, l'eroe della sua infanzia, per non parlarci del suo. Corrias P., Introduzione a Non leggete i libri, fateveli raccontare, Neri Pozza, Milano 2022 (p. 11)

Nel 1971 muore a Milano, a soli quarantanove anni.


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