Ernesto è un romanzo di formazione, scritto da Umberto Saba, e pubblicato postumo, nel 1975. Nonostante il libro sia stato presentato come un romanzo di finzione, per molti aspetti che analizzeremo in seguito, Ernesto è un’opera autobiografica. Lo stesso Umberto, prima di pubblicarlo, teme di offendere la memoria del suo amico scomparso prematuro, che si nasconde dietro un personaggio del libro.
Ernesto è la storia di un sedicenne, nato a Trieste durante la fine dell’Ottocento, che lascia la scuola per lavorare in una piccola azienda commerciale.
Vive un’infanzia malinconica, complice l’assenza del padre e la presenza di una madre troppo severa e restrittiva. Nella vita di Ernesto, il gioco è scomparso prematuramente, ha abbandonato la scuola e ha cominciato a lavorare, anche per poter passare qualche soldo alla madre. Sul posto di lavoro, il giovane triestino, conosce un uomo più grande di lui. Tra loro nasce una forma di complicità, e il ragazzo ne resta ammaliato e sedotto, senza realmente capirne le ragioni. Tuttavia il gioco, presto, stanca Ernesto, e il giovanotto abbandona il lavoro e l’innamorato.
L’opera non racconta che poco più di un mese della vita del sedicenne Ernesto. Un giovanotto volenteroso, “anche un po’ socialista”, che si ribella al suo datore di lavoro perché sottopagato. La storia, seppur breve, è molto intensa e raggiunge un’apice di crudeltà inaudito, nonostante la dolcezza sia una componente altamente presente. Infatti la narrazione è addolcita dal punto di vista del protagonista bambino, sempre curioso; mentre i fatti che vengono narrati celano orrori e fatti riprovevoli. La giovane età di Ernesto lo rende sempre innocente, e i colpevoli – alla fine – restano i padroni, lo stato, e chiunque si approfitti della miseria e degli svantaggi altrui. Per questo l’opera non si presenta soltanto come una biografia del giovane Ernesto, ma anche come una critica nei confronti della società.
L’opera di Saba è un’opera autobiografica, in quanto contiene un frammento della vita del poeta triestino.
Se dietro Ilio (l’amico di Ernesto) si nasconde Ugo Chiesa, un suo amico e noto concertista del tempo; dietro Ernesto non può che nascondersi l’acerbo Umberto Saba. A confermarlo, nel 1953, mentre già sta componendo Ernesto, il discorso pronunciato quando riceve la laurea honoris causa permette ai più attenti di riconoscere alcune affinità tra la sua vita e quella del protagonista. Infatti, anche Umberto, verso i tredici anni lascia la scuola per l’impiego in una casa commerciale e cresce con sua madre e le sue zie, per poi essere, per un periodo, affidato a una balia slava.
La scrittura diviene – è evidente – per l’autore un metodo per guardarsi dentro e riportare alla luce alcuni fatti del suo passato, che continuano a tormentarlo. La lingua dialettale, ampiamente utilizzata e semplificata per renderla comprensibile al lettore, diventa per lui un filtro attraverso cui parlare anche di ciò che, in italiano, non potrebbe dire. Certe descrizioni macabre sono rese meno crude dalla scelta del dialetto; e anche certe imprecazioni descrivono meglio le sensazioni di un ragazzo mal istruito della Trieste di fine Ottocento. Nonostante il supporto di un vasto entourage di parenti e affezionati, Umberto Saba vuole giustamente arrivare a toccare e decidere ogni aspetto trascurato della sua opera. La scrive e riscrive almeno tre volte, la consegna in varie versioni, non è mai contento davvero.
La composizione dell’opera comincia durante il soggiorno del 1953, all’interno della clinica romana Villa Electra, dove il poeta si trova ricoverato.
La lettura del suo romanzo in corso di composizione è offerta a diversi fortunati visitatori. Personaggi come Carlo Levi, Elsa Morante e Anita Corsini, dichiarano che sia la cosa meglio scritta dal poeta. Anche in clinica, i compagni di degenza sanno che Saba sta scrivendo un romanzo, e di tanto in tanto, come il poeta dichiara alla moglie Lina,
vengono a chiedermi sue notizie (se si è fatta la barba, se è già stato dalle donne, ecc. ecc.)
perché sono affezionati al racconto e al personaggio protagonista della storia, il giovane Ernesto, da cui l’opera prende il titolo.
Terminata la permanenza del poeta nella clinica, Saba torna a Trieste, dove prosegue nella stesura dell’opera con l’intermediazione privilegiata della figlia. Linuccia, verifica la validità del testo, apporta modifiche dove lo ritiene opportuno. La figlia, diventa per il padre, l’editor e assistente più accurata ed esigente. Lui le manda lunghe lettere dove le spiega le parti del dattiloscritto che proprio non possono essere cambiate, lei lo segue attenta e asseconda i suoi piani.
Ma Saba è stremato, cambia idea continuamente, vorrebbe scrivere una storia molto più lunga di quella che riesce a comporre: ma il tempo che ha a disposizione è troppo poco.
Nelle lettere indirizzate agli amici Stock e Gambini, il poeta dichiara di non possedere la “letizia” e la “crudeltà” necessari per arrivare alla fine. Tuttavia, Saba è consapevole di aver scritto delle pagine di valore. È spaventato dalla quantità di autobiografismo presente nella sua opera, e sa che non riuscirà a portarla a termine. Invia il testo al suo maggiore studioso, Tullio Mugno, corredato da una lettera scritta da Ernesto, il protagonista del romanzo – quasi fosse un suo alter ego – che dichiara di aver raccontato la sua storia a Saba.
Nel 1955, quando Saba sta ormai per morire, chiede alla figlia Linuccia di dar ordine a Carlo Levi di distruggere il manoscritto. Il poeta è infatti tormentato dall’idea che l’opera venga pubblicata così com’è, e sostiene che ci sia troppo a cui lavorare.
La pubblicazione di Ernesto avviene, infine, soltanto dopo la morte di Carlo Levi, quando Linuccia si mette in contatto con Giulio Einaudi e ne cura la pubblicazione.