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  • Immagine del redattoreAldostefano Marino

I superflui, Dante Arfelli

Si sarebbe dovuta intitolare La sera, la prima opera di Dante Arfelli, composta in appena dieci giorni sotto l'incoraggiamento di un romanziere che ne aveva letto e apprezzato i primi capitoli, Marino Moretti. E forse, dietro quel titolo scartato, oggi avremmo anche potuto riconoscere l'esordio di un tramonto sì maestoso e pieno di grazia, ma presto destinato all'oblio della sera.


Quando I superflui (Rizzoli, 1949) viene stampato, Arfelli è un professore precario, sogna di emigrare in Argentina, in America, o nella vicina Roma che i suoi amici scrittori raggiungono nella speranza di frequentare i posti giusti, i bar e i salotti letterari per fare carriera.


Eppure, diviso tra la fascinazione per la scrittura e la repulsione del prezzo da pagare per far parte di una società letteraria fatta di ideali e convinzioni di facciata, fino alla fine, Arfelli si tiene lontano dalla realizzazione delle proprie ambizioni, perché non è mai dalla parte dei favoritismi, delle strade abbreviate.


Arfelli è fedele solamente ai suoi princìpi, gli stessi che lo spingono a scrivere, e poi a rifiutarsi di scrivere ancora. A differenza dei suoi colleghi, a costo della sua salute, Arfelli non abbandona la provincia romagnola, continua a mandare lettere d'impiego alle riviste e ai giornali, ma nessuno è disposto a offrirgli un posto, così come lui non è disposto a venire a compromessi. Arfelli resta integro, non si presta al meccanismo del successo, nonostante il grande riscontro della sua prima pubblicazione, e se il prezzo da pagare è scrivere libri commerciali preferisce non scriverli. Se il prezzo da pagare per denunciare la corruzione dilagante e le false speranze offerte agli emarginati è corrompersi, preferisce il silenzio, l'oblio a cui in seguito si sottopone.

Anche se questo [romanzo] mi riuscisse, il secondo vorrei solo scriverlo come il primo, con l'intenzione di scrivere per me, di soddisfare me e basta [...] Ma se questo mi va male ho già fissato la mia linea di condotta. Non mi metto a scriverne un altro: perdere dei mesi, un anno, dietro un libro che poi nessuno vuole, è una cosa crudele, come è imbecille perdere un anno dietro un libro che si sa che non è proprio il tuo, sincero, anche se c'è l'editore bell'e pronto.

Non a caso, dopo I superflui (1949), La quinta generazione (1952) uscirà in libreria pochi anni dopo, anticipando un silenzio che durerà fino al 1993.


Un silenzio imposto non solo dalle sue idee, ma dalle condizioni psichiche a cui lo porteranno quelle stesse posizioni. Perché Arfelli si rifiuta di sottostare ai meccanismi naturali dell'industria culturale, restando coerente alle idee espresse nei suoi libri. Rimane dalla parte dei superflui, si fa lui stesso superfluo, per coloro che sono considerati ai margini della società, e che non hanno alcun modo di scampare alla miseria. Come Luca, il giovane protagonista di provincia di famiglia contadina del Nord Italia, emigrato a Roma per cercare fortuna. O più che la fortuna, sempre preclusa agli ultimi, agli emarginati, ai più umili, ciò che cerca Luca è di scampare alla miseria.


Con sé porta due lettere che dovrebbero fruttargli qualche lavoretto, un'occupazione che gli consenta almeno di pagarsi un affitto e vivere dignitosamente – una scritta dal parroco del suo paesino, don Aldo, l'altra da un noto socialista. Ma i suoi agganci non sono abbastanza solidi e a Roma la vita resta la stessa: neanche qui ha scampo ed è costretto a relegarsi ai margini perché non può fare niente per elevare la propria condizione. Luca che trova sì un lavoro precario ma si accontenta delle briciole e condivide l'appartamento con una prostituta che lo abborda non appena giunge alla stazione di Roma, con cui condivide la stessa speranza di un futuro migliore, il medesimo presente incerto fatto di stenti e scelte obbligate.


Lidia, che sogna di scappare in Argentina e di smettere questa vita grama, spesso in combutta con la vecchia proprietaria della casa dove i due alloggiano, trascorre i suoi giorni a risparmiare per poter un giorno partire in Argentina, dove finalmente potrà smettere di esercitare l'unica professione che le è possibile. Ma mentre il suo conto si alimenta con una lentezza estenuante e con la stessa facilità si svuota, addosso non le restano che le vane speranze di poter vivere una vita migliore.


Arfelli e I superflui si impongono contro le raccomandazioni, contro personaggi egoisti che alimentano il potere dei più ricchi, e che campano della speranza disillusa offerta ai giovani durante comizi elettorali fattiscenti e di poca sostanza. Si colloca all'interno della corrente neorealista e ne prende le distanze: perché protagonista del romanzo non è la retorica fotografica delle macerie del Dopoguerra, bensì lo scontento e lo spaesamento di una disperazione economica ed esistenziale.


A decretare il successo dell'opera prima di Arfelli fu il Premio Venezia, presieduto da Pietro Pancrazi e Aldo Palazzeschi, all'interno di una serata trasmessa in diretta radiofonica per cui Arfelli si fece prestare l'abito e le scarpe.


E se in Italia l'opera dell'autore non venne del tutto apprezzata dalla critica, oltreoceano il romanzo raggiungerà vendite vertiginose, fino a toccare, così si tramanda, le ottocentomila copie. Sorte diversa capitò invece al successivo La quinta generazione che non riuscì a imporsi come il predecessore e che gettò Arfelli nello sconforto di non essere tagliato per quel mondo, continuando a preferire la scrittura fine a se stessa, come uno strumento per analizzare il marciume di un mondo corrotto e del suo dio Denaro.


Prima di morire, ammalato di Parkinson, Arfelli trovò la forza di scrivere una sorta di diario, Ahimè, povero me con cui cercava di essere meno superfluo e più vivo. Cercava il riscatto, che oggi readerforblinds tenta ancora ripubblicando tutte le sue opere.



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