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  • Immagine del redattoreAldostefano Marino

Gli aquiloni, Romain Gary

Aggiornamento: 22 dic 2021

È il 1980, Romain Gary aveva ormai già raggiunto l’apice del successo, ma da quell’olimpo ne era anche disceso. Da tempo, infatti, i critici non facevano altro che ripetere che quell’autore, ormai, aveva finito di raccontare storie interessanti. Eppure nessuno nutriva il sospetto dell’imbroglio; ma dietro il nuovo promettente Emile Ajar (vincitore del Goncourt con La vita davanti a sé, osannato da tutti) in verità si nascondeva Gary, e la società intellettuale francese dovette presto fare i conti con la scandalosa realtà.


Gary ha escogitato un modo infallibile per tornare alla ribalta; un tentativo di dimostrare che quelli nutriti verso di lui non erano niente di più che pregiudizi. Ha deciso di servirsi di un alter-ego, ed è proprio così che, nel tentativo di raggiungere una nuova luce, Gary dà vita al romanzo totale. Un romanzo dove i confini tra realtà e finzione si mescolano in un tutt’uno, e in cui l’autore diviene parte integrante della storia – in quanto anch’egli ne fa parte.


In quello stesso 1980, uscì Gli aquiloni e Gary si tolse la vita. Dopo aver acquistato una vestaglia rossa per non sconvolgere chi lo avrebbe trovato esanime, scritto un biglietto in cui negava qualsiasi collegamento alla scomparsa dell’ex moglie, Gary si suicidò. Solo allora, tramite il testamento letterario Vita e morte di Emile Ajar, fu noto a tutti dietro quale escamotage Gary fosse riuscito a dar vita a un altro io, in grado di emozionare di nuovo la Francia e il resto del mondo intero.


Gli aquiloni ci consegna l’ultimo importante messaggio dell’autore; un’accurata riflessione attorno al ruolo fondamentale della memoria.


È la memoria che fa da motore alle vicende che prendono vita tra le pagine di questo romanzo. Prima di tutto la memoria della Prima guerra mondiale. In ordine di comparsa, infatti, Ambroise Fleury è il primo personaggio a venir menzionato nel racconto. Egli ha combattuto nella Grande guerra, è divenuto obiettore di coscienza, e come tutti i membri della sua famiglia è condannato alla «malattia della memoria» – additato da tutti come un folle.


La memoria, uno strumento tanto potente da esser stata responsabile della morte di molti Fleury, è ciò che tiene in vita Ambroise. Ma non solo; tiene in vita anche i suoi defunti fratelli, dei quali uno gli ha lasciato in affido un figlio, il piccolo Ludovic Fleury. Oltre alla memoria, ci sono gli aquiloni: fragili ma combattenti, che appena raggiungono il cielo vanno tenuti saldamente, affinché non corrano alla ricerca dell’azzurro. E di aquiloni si occupa Ambroise Fleury, che oltre a essere conosciuto da tutti come il postino rurale di una piccola cittadina della Normandia, diviene noto per i meravigliosi aquiloni che libera nel cielo.


A caratterizzare la famiglia dei Fleury, e di conseguenza poi anche il giovanissimo Ludovic, non è solo quell’attaccamento alla memoria, ma anche ciò che da essa direttamente deriva. Si tratta di un «granello di follia», una «scintilla sacra» che scaturisce dall’essere sprovvisti di quella capacità dell’oblio. Poiché, se da un lato la memoria conserva le cose così come le abbiamo amate (ma anche così come le abbiamo odiate); dall’altro imprigiona l’uomo in un ricordo che con il tempo è destinato a evolversi, e a restare, appunto, nient’altro che un ricordo.


Ludovic Fleury è il vero protagonista degli Aquiloni, ma attorno a lui, file di personaggi affollano il racconto.


Ludovic, come tutti gli altri Fleury, ricorda molto più di quanto dovrebbe. Per questa ragione riesce a diplomarsi a soli quattordici anni, e subito comincia a lavorare come contabile presso uno dei più prestigiosi ristornati francesi: il Clos Joli. Ludovic è in grado di compiere a mente calcoli complicatissimi, ed è di quella stessa arma che si serve per conquistare l’affetto di una giovane ragazza, Lila, appartenente a una famiglia polacca ben più ricca e benvista dei Fleury.


L’incontro fatale si consuma nelle prime pagine, ma è destinato a mantenere in vita tutto il tempo del racconto. Non bisogna infatti dimenticare che il tempo in cui si svolge la narrazione è un tempo di transizione, quello che accompagna il mondo da una guerra a un’altra – ancor più distruttiva e clamorosa della prima. E allora, l’unica cosa indispensabile per Ludovic – mentre il tempo scorre e la situazione precipita – resta la memoria, attraverso cui serbare il ricordo dell’amore totalizzante che ha provato per Lila.


Lila che durante quegli anni cambia; fa delle scelte, e che si trova costretta a dover avvicinare il nemico per sopravvivere al dolore in cui tutti sono coinvolti. È un dolore che si intensifica con l’occupazione tedesca, e che viene costantemente alimentato dalla memoria: la memoria per quella libertà francese, per quello spirito d’indipendenza e fratellanza, che in molti si sono scordati – o che hanno paura di ricordare! Ma i Fleury non l’hanno dimenticato e non possono dimenticarlo, e così sperano che la Francia torni presto a essere grande quanto lo era stata.


Il tempo narrato è quello degli anni Trenta; o almeno, da quegli anni prende il via il racconto – destinato a concludersi almeno dopo vent’anni di narrazione.


Sono gli anni del primo dopoguerra, e per questo, in via definitiva, contraddistinti dalla memoria. Sono gli anni della Resistenza, di una barriera difensiva costituita da persone che hanno provato a opporsi a quell’ingiusto dolore provocato dai nazisti. Eppure, anche Gary, non riesce a incolparli del tutto: non sono i nazisti ad avere rovinato il mondo, è l’essere umano a contenere dentro di sé «il disumano». Prima dei nazisti ce ne furono altri, accomunati a loro dalla loro tridimensionalità umana. Perciò l’uomo non dovrebbe mai stupirsi di venire al corrente della cattiveria insita nell’uomo.


Ma se il racconto parte proprio da quei primi anni di ribellione, procede fino alla fine della guerra e ben oltre la liberazione. Una liberazione che non potrà essere definitiva, perché ormai il mondo è cambiato e l’uomo si sente in dovere di adattarsi ai tempi nuovi. Anche Marcellin Duprat – chef stellato e proprietario del Clos Joli – non intende retrocedere dal compito assoluto che gli ha affidato la memoria. Il suo unico scopo è quello di restare in vita, non solo lui, ma soprattutto la cucina francese, affinché nessuno la dimentichi. Nella sua accondiscendenza, nel suo doversi prostrare al nemico, Duprat è un vero ribelle, un garante della memoria – anche dopo che sarà torturato per fornire ai nazisti le sue ricette.


Su di sé, Duprat sente la responsabilità di conservare tutte le ragioni per cui la Francia è stata grande, prima fra tutte la cucina; l’eleganza culinaria, la delicatezza e il rigore dei sapori. E Gli aquiloni, così, fa presto a diventare un romanzo che si legge non solo con gli occhi, ma anche con il peso dei ricordi e i sapori, gli odori, la perseveranza di un’arte rimasta in piedi grazie al potere della memoria.

Ma di quella ribellione citata poc’anzi si nutre anch la piccola Lila, che per tutto il tempo sarà indecisa se abbandonarsi al tedesco Hans dal futuro certo; oppure, se lasciarsi andare a quell’amore incondizionato che Ludovic sa darle – così abituata a sentir parlar di affari, prima che d’amore.


Ma il ribelle per eccellenza del racconto non può che essere Ludovic Fleury.


Uno stralunato ragazzino che nei giorni trascorsi individua la speranza per vivere quelli futuri; un quattordicenne che perde la testa per una bambina, e che da subito comprende di poterla conservare intatta solo nel ricordo. Un po’ come la Francia per suo zio Ambroise, un uomo tutto d’un pezzo, con le idee precise, tanto affilate da portare poi Ludovic a prender parte alla Resistenza partigiana francese.

Il romanzo così si addentra nelle pagine più sofferte e lente della propria narrazione; e la Resistenza acquisisce nella storia una risonanza e un’importanza che si libbra al di là di ogni elemento narrativo. La resistenza sì di un’intera nazione, ma anche quella dei singoli che hanno lottato per non perdere la memoria. Ribelli, sì, ma che si sono opposti alle ingiustizie di un mondo di cui essi non sembrano altro che pedine.


Eppure, anche la memoria a cui viene dedicata l’opera, citata in epigrafe, talvolta può giocare brutti scherzi. Poiché la memoria tiene incollati alle cose così come le abbiamo percepite, un po’ come l’assurdo personaggio che dichiara di aver amato la moglie per trent’anni e di esserci riuscito inventandosela ogni giorno, ovvero ricostruendola sulla base di ciò che gliel’aveva fatta amare.

Ma il mondo va ben oltre le percezioni; e allora, colui che sembra il cattivo è un essere umano qualunque, diverso dal buono per le sue sole esperienze, situazioni e memorie.

Perché, in fondo, quei nazisti e quei fascisti, che cosa sono se non esseri umani? E allora, guardando al passato, riferendoci alle atrocità che sono stati in grado di compiere, il problema fa presto a trasferirsi dagli esecutori di quell’osceno crimine degli anni Trenta e Quaranta, a tutta quanta l’intera popolazione. È l’uomo il problema, la disumanità presente in ognuno di noi; l’egoismo, l’egocentrismo, il disinteresse che abbiamo per il mondo, che fatichiamo a riconoscere per lo scarso investimento che tutti i giorni facciamo verso la memoria.


E allora, sono gli aquiloni di Ambroise, gli ideali da mantenere stretti; che in una metafora frequente, non troppo dissimulata, si traducono nella memoria del passato.


Solo grazie alla memoria è possibile comprendere il presente e mantenere in vita ciò che nel passato ha saputo arricchirlo, farlo fiorire, renderlo il passato verso cui vertono i nostri ricordi. Quel passato su cui occorre rifondare il futuro e che sempre è offerto all’uomo come ultima consolazione: davanti alle perdite, alle ingiustizie, e alla noncuranza della memoria.

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