Nel 2014, un racconto fino ad allora inedito, Il vino dei morti, venne ritrovato da Philippe Brenot. Brenot, medico psichiatra, sessuologo e antropologo francese, capì di avere tra le mani qualcosa di importante. Si trattava di un romanzo fondamentale all’interno della produzione di Gary, romanzo che – come recita in calce la copia manoscritta – sarebbe dovuto apparire sotto l’autore di Romain Kacew.
Romain Kacew altro non era che il vero nome di Romain Gary, di Emile Ajar e di quella serie di pseudonimi utilizzati dall’autore per depistare i propri lettori. Ma ancor prima di quella volontà, l’idea di Gary è di creare un romanzo totale; intento che, dopo la lettura del Vino dei morti appare più che mai evidente.
Concluso nel gennaio 1937, a soli diciannove anni, Le vins des morts venne consegnato a Christel Soderlund nel 1938. Scorreva il tempo della loro epica storia d’amore, ma l’amante lo custodì anche dopo la scomparsa di Gary. Solo nel 1992, Soderlund mise all’asta il manoscritto inedito dell’ex amante, e fu così, che dopo itinerari misteriosi giunse fino alle mani di Philippe Brenot – colui che ne curò la prima edizione francese.
In Italia, Neri Pozza lo ha dato alle stampe solamente nel mese di maggio 2021: sempre le si renda onore. Realtà editoriale molto attenta allo scrittore francese, da anni, la casa editrice vicentina è impegnata nella riscoperta di Romain Gary e i suoi alter ego.
La prima notizia certa a proposito del manoscritto è quella legata al riconoscimento del Vino dei morti come il primo romanzo scritto da Gary.
Riccardo Fedriga, nella postfazione al testo, lo definisce un «romanzo enologico della corruzione dei corpi e del rifugio nella medesima specie». Proprio da questo punto voglio partire per raccontarvi queste brevi ma fitte pagine – di parole, sentimenti, suoni, colori, ritmi – che presentano per la prima volta sulla carta tutto ciò in cui l’opera di Gary evolverà. Viene difficile, tuttavia, restringere l’opera di Gary alla sola composizione scritta: Romain Gary fu in grado di rendere se stesso parte di quell’opera. Un’opera totale, dove ogni romanzo non può essere considerato una storia a sé; ogni racconto, ogni personaggio e ambientazione si rintracciano in libri successivi, in altre storie, e talvolta nella vita stessa di Gary.
È il lettore colui a cui viene affidato il compito di riavvolgere il nastro, di rintracciare il capo della matassa e riportare in vita i personaggi che hanno vissuto in altre pagine. Alla parola scritta, invece, viene affidata la missione di fissare le esistenze, di imprimere sulla carta le loro memorie. Proprio nel Vino dei morti le esistenze si moltiplicano, e non sono più solo persone: ogni cosa acquisisce spessore e importanza. Una forma di Brie non fa altro che mangiare e sghignazzare; un posacenere si anima di aggressività; un armadio si dimostra impaurito nei confronti degli sbirri. E tra questa sequela di oggetti e i personaggi più vicino a noi non passa alcuna differenza reale.
Il vino dei morti si anima perciò di personaggi che non sono quelli tipici di un romanzo. E il primo, a dimostrare la propria stramberia, è Tulipe.
Tulipe è un giovane ragazzo che, d’improvviso, senza spiegazione alcuna – se non nell’epilogo del racconto – si ritrova ad attraversare il regno dei morti. Tulipe è un Dante leggendario, un Dante spavaldo e a tratti impaurito, che nel suo lungo itinerario entra in contatto con personaggi di ogni specie. Ognuno di loro conduce un’esistenza fondamentale, non meno dei morti con fattezze umane; e questa assemblea di personaggi strambi, non vive che attraverso la penna di Romain Gary – che in tali circostanze, si erge quasi a far pseudo di un dio creatore. È Gary stesso a dichiarare, nella Notte sarà calma, che l’essere umano per primo è nato per caso, e sparirà sempre per caso, cancellato dalla gomma di un giudice indifferente.
Il vino dei morti è dunque la narrazione di un viaggio nell’aldilà, attraverso gli inferi e il mondo dei morti. È un viaggio quasi senza senso, ma che trova il senso di esistere nelle ragioni per cui Gary lo scrisse. Gary disse che dentro Tulipe c’era già tutta la sua opera. Se i critici l’avessero letto a suo tempo, sarebbero stati più facilitati nell’indagine attorno a Emile Ajar. Essi avrebbero subito compreso che quegli scenari di miseria e degrado erano gli stessi in cui Madame Rosa sarebbe stata costretta a mettersi in salvo anni e anni dopo. Essi avrebbero saputo individuare anche in Tulipe, quel personaggio enigmatico, il personaggio che avrebbe dato nome a un’altra opera di Gary, Tulipe.
Ma la storia del Vino dei morti si spinge oltre i contenitori della letteratura e delle tecniche tipiche della narrazione.
Il vino dei morti si costituisce come un affresco, un’alternanza ritmica di sequenze, scene, collegate le une alle altre – e anche a quelle che saranno poi. Questi quadri hanno il compito di narrare quell’attraversamento onirico «tra una sabba di tombe, loculi, bare, e morti che paiono gli inquilini bislacchi di un cimitero». Storie infinite – che si accartocciano tra loro – acquisiscono senso definitivo solo nella mente del lettore: è il lui a dover comprendere, a interpretare tra le righe le fini mai certe dei personaggi.
E tra le anime in pena del Vino dei morti nessuna vita è data una volta per tutte: perché ogni personaggio si riallaccia ad altri personaggi, altre storie che i lettori di Gary ben conoscono. Anche le parole pronunciate, e le disgrazie che patiscono i personaggi si ritroveranno nei romanzi di Gary: e ancora sarà dato al lettore di comprendere l’incompiutezza di ogni singolo romanzo, e ricollocarlo all’interno di una cornice più ampia di cui fa parte l’intera opera di Gary, e lui stesso.
La lingua e la parola scritta divengono per Gary terreno di sperimentazione.
Dimenticatevi di trovare in questo libriccino un filo logico; spesso sarete costretti a mettere in discussione l’interezza del linguaggio adoperato. Simbolista, futurista, volgare e sfrontato come Rimbaud, Gary ha reso anche la lingua un personaggio dei suoi romanzi. Parole senza senso, neologismi, suoni riprodotti a lettere, lamenti e imprecazioni diventano parte integrante di un nuovo linguaggio. E non solo: la musicalità di quei versi rende questo romanzo simile a qualsiasi cosa: a una poesia, a una canzone, a un manifesto. E perciò, Il vino dei morti non si può esaurire nella definizione canonica di romanzo.
Il vino dei morti contiene tutto dentro di sé e al contempo lo nega. Nega tutto ciò che il lettore crede possibile e lo conduce verso una rifondazione dell’esistenza: dove essere significa esistere. Ogni cosa che è esiste, ha vita propria. Tuttavia, niente è dato esser conosciuto una volta per tutte, e la vita stessa si fa metafora dell’impossibilità di comprensione da parte dell’uomo se essa sia reale o meno: e se l’esistenza dei vivi, altro non fosse che una pantomima? Una recita prima di entrare in quella che veramente la vita sarà? E se dunque, fossimo costretti per sempre, a rivivere, da morti, ciò che in vita siamo stati? Allora, quindi, la vita non sarebbe che una prova e non avrebbe senso chiamarla vita, poiché sarebbe piuttosto la metafora, quella pagina bianca su cui vengono decise le nostre sorti. Che allo stesso tempo si può tradurre in due modi opposti: l’essere umano non può nulla rispetto alla propria vita; oppure, invece, può qualsiasi cosa.